Ai coloni greci questo ammasso di picchi, scogli e insenature, offrirono asilo e sicurezza, nei pericolosi viaggi sull’infido elemento. Omero dette, forse il primo nome “eea”, da eos, un nome dell’aurora. Dopo Omero vennero altri leggendari, come Apollio, Strabone, e Virgilio che la chiamarono l’isola di Circe. Nel libro di Giovanni Boccaccio essa è vista come un porto dimenticato da tutti, perché distante dalla terraferma. Era considerata un posto dove gli abitanti erano pigri e si lasciavano affascinare dalla fanciulla. Le leggende ci dicono che la Maga Circe trasformò gli uomini in animali e le donne in sirene, perché dovevano svolgere un determinato lavoro: attirare i navigatori per farli cadere in trappola. Circe per regnare da sola, uccise il marito e fuggì con il carro del sole e nell’isola di Ponza. Omero racconta che Ponza era la dimora della maga Circe, la quale voleva trattenere Ulisse e la sua truppa. Era luogo di domicilio per quelli che avevano commesso reati contro lo stato, per le donne indesiderate e per i cristiani perseguitati. Molti secoli dopo divenne, per un periodo, l’isola di penitenza per i nemici dei Borboni. Nel periodo fascista era diventata luogo di confino per alcuni uomini politici avversi al regime che era al potere. Vi dimorò anche Giulia, la figlia di Augusto, che, poi, fu portata in una villa di Ventotene, perché implicata nelle congiure contro la sua matrigna, Livia Drusilla. Tra i primi popoli che sbarcarono a Ponza si ricordano i Romani, i Sanniti, gli Etruschi, i Greci, gli Osci, gli Ausoni (o aurunci), i quali colonizzarono Ponza con il nome di “terra del sole e terra del lavoro”. Nel 312 a.C., quando veniva chiamata “Pontia”, era popolata dai Volsci. Essi sfruttarono le grotte naturali già esistenti e se ne costruirono altre in strati asciutti. L’isola si poteva considerare una base navale per fermare i commercianti stranieri. I popoli romani furono i primi a costruire i condotti d’acqua, i due acquedotti (l’uno dalla cisterna della Dragonara e l’altro da Cala d’Inferno fino a S. Antonio).Con un salto nel tempo si arriva nell’anno 350 d.C., quando nacquero i monaci benedettini. Molte volte l’isola fu presa di mira dai saraceni, prima nell’813, e più tardi, nell’845, anno in cui non si riuscì a fermare il loro attacco massiccio. Furono le repubbliche marinare di Amalfi e Gaeta a farli ritirare. L’isola attraversò un periodo infausto anche per i benedettini che non volevano più mettere piede nell’isola. Fu il duca di Gaeta a costruire monasteri ed a spingere i monaci a restare nell’isola. L’isoal di Ponza era una meta da molti desiderata: molti volevano il dominio sull’isola e sul Tirreno. Quando la repubblica marinara di Genova si indebolì, Ponza fu conquistata dai pirati che avevano molti nascondigli nelle grotte naturali, che si trovavano a fior d’acqua ed erano comode per effettuare trasporti vari. Nel mare di Ponza il 24 giugno 1300 la flotta navale di Ruggero sconfisse la flotta navale di Corrado Doria. Nel 1400 le isole pontine passarono sotto il dominio della chiesa. Il 7 agosto 1435 Alfonso V d’Aragona, re di Sicilia, fu sconfitto nelle acque dell’isola e fu fatto prigioniero nella battaglia denominata “battaglia di Ponza”. La battaglia durò 10 ore consecutive, durante la quale furono fatti prigionieri tutti gli abitanti di Ponza, che, ovviamente, si spopolò. Il nipote Ottavio tento’ di ripopolare l’isola, prendendo famiglie provenienti da Parma. Anche Carlo III cerco’ di ripopolare Ponza e Ventotene, ma questa volta con famiglie provenienti da Ischia e da Torre del Greco. Il 26 giugno 1875 Carlo Pisacane ed altri suoi patrioti sbarcarono a Ponza per liberare i detenuti. Il 25 luglio 1943 Ponza ospito’ per 11 giorni Benito Mussolini. Prima ancora aveva ospitato anche molti detenuti politici, tra cui Sandro Pertini.



Una specie singolare delle rioliti è l’Ossidiana, cioè, vetro puro, allo stato naturale, nero, lucentissimo.Tra le vampate erompenti delle rioliti, si trova come tratto d’unione, poco saldo, misto ad altri tufi. L’uomo preistorico conobbe questo mare, venendo dal Circeo, propio in cerca di questo minerale presente per lo più all’ Isola di Palmarola, dove c’è una vena molto compatta.Lo stesso mare lo conobbero, poi i fenici e i greci che, dopo aver scoperto Ischia si spostarono più a ovest e s’imbatterono in Ventotene e Ponza, lasciandovi tracce di una presenza più intuita che documentata, ma sicura. Dopo di loro queste acque furono percorse da un altro popolo, gli aurunci, misterioso d’origine quanto concreto nelle testimonianze che ha lasciato. Questi vennero soppiantati dai romani, che portarono nelle isole espressioni contrastanti: gioia di vivere (le ville) e organizzazione tecnica (gli acquedotti), ma anche il grigiore del confino, creato per la nobiltà dorata, quella che si permetteva infedeltà e relazioni audaci, amicizie particolari e inimicizie rischiose. La storia corre rapida: venne il cristianesimo e vennero le punizioni dei cristiani di prima vocazione e di “petto eroico”, come li chiamò Giovan Battista Pacichelli: Domitilla, Nereo, Achilleo furono tra i primi a sperimentare il conflitto tra qualità dei luoghi e durezza del martirio, e vennero seguiti da una folta schiera di compagni. Tra i personaggi più illustri forzatamente relegati a Ponza e dei quali l’intreccio tra pietà, fantasia e riscontri storici ha concorso a perpetuare un vivace ricordo, è San Silverio, venerato patrono dell’isola. Eletto papa nel 536, inviso a Teodora, moglie dell’imperatore Giustiniano, sostenitrice di Antimo, patriarca di Costantinopoli, deposto perché monofisita (cioè eretico), Silverio rifiutò ogni compromesso. A suo danno furono costruite prove di un tradimento (la presunta richiesta di un intervento del goto Vitige per scacciare da Roma i bizantini): Teodora ne ottenne l’arresto e l’invio in esilio nell’isola di Palmaria, dove il papa morì l’11 novembre del 537.Con l’antico nome di Palmaria gli autori latini si riferiscono sia a Palmarola sia a Ponza. La conseguenza fu che Silverio, poi canonizzato come martire, trascorse con tutta probabilità il suo esilio a Ponza, ma la leggenda ne collocò il ricordo a Palmarola, che appariva, nella sua solitudine, luogo più adatto a sottolineare l’oltraggio a un pontefice. Lo “scoglio di S. Silverio” a Palmarola accoglie sulla sua sommità una cappellina che la pietà popolare vuole sia sorta sui resti della forzata residenza del santo.



San Silverio divenne così il primo eremita illustre, sia pure involontario, a frequentare le Pontine. Qui alla fine del VI secolo si erano formate piccole comunità monastiche contro le quali si sarebbero accaniti, a partire dall’813, anno della prima scorreria, i saraceni. I monaci abbandonarono le isole forse per oltre trecento anni, tornandovi agli inizi del XIII secolo, quando la situazione politica nei territori confinanti di Lazio e Campania sembrò godere di maggiore stabilità. Si formò all’epoca una presenza cistercense, che utilizzò il monastero fondato dai benedettini in località Santa Maria a Ponza. Pur aggregato nel 1243 all’abbazia romana delle Tre Fontane, il cenobio fu legato fortemente prima all’abbazia di Fossanova, in Marittima (oggi provincia di Latina), poi alla diocesi di Sessa Aurunca, e infine a quella di Gaeta, e restò cistercense fino al 1454, anno in cui i monaci abbandonarono definitivamente per l’atteggiamento ostile di Alfonso d’ Aragona. I cistercensi si trasferirono a Formia, dove eressero la chiesetta tuttora esistente che chiamarono a ricordo della loro provenienza Santa Maria di Ponza.Un altro monastero, anch’esso prima benedettino e poi cistercense, fu eretto a Zannone, e dedicato a Santa Maria e al Santo Spirito. Alla metà del XIII secolo esso possedeva addirittura Ventotene e la lontana Ustica (che sarebbe stata poi aggregata all’abbazia di Casamari). Anche ai monaci di Zannone lasciarono la loro isola prima dei colleghi di Ponza, trasferendosi a Gaeta per costruirvi il monastero di S. Maria e del Santo Spirito di Zannone, in località Piano d’Arzano, dove sussistono notevoli ruderi.Il perché dell’abbandono delle isole da parte della popolazione e dei monaci si spiega e giustifica con le vicende politiche continentali (lotte tra Angiò e Aragona, tra papato e impero) che distolsero ogni attenzione politica e militare dalle lontane isole, lasciate così prive di difesa e esposte ai saccheggi.



Furono soprattutto le scorrerie a rendere deserte le isole: i saraceni a partire dal IX secolo, poi i mauri (come li chiamava in una Bolla del 1447 Sisto IV), infine i turchi. I pirati (ma è preferibile chiamarli corsari: la loro guerra da corsa era in effetti nota, accettata e anche sovvenzionata dai governi dei loro paesi, che ne traevano tutti i vantaggi) divennero a lungo i temuti dominatori del Mediterraneo: predatori accaniti, ottimi navigatori, impavidi combattenti motivati dalla “guerra santa” e dalla prospettiva di facili bottini. Ponza e Ventotene, grazie alla loro posizione geografica , erano splendide basi di appoggio per le scorrerie, che conobbero due gravissimi episodi nel 1534 (Khair-ad-Din detto Barbarossa distrusse Sperlonga, Fondi e si spinse fino a Roma) e nel 1552 (Dragut saccheggiò Minturno, Castellonorato e altre zone vicine). In quel secolo pontefici e re di Napoli tentarono di opporre una qualche linea di difesa erigendo una catena di torri fortificate sulla costa e nell’interno, di cui restano notevoli testimonianze. In questa situazione, come si diceva, non fa meraviglia che i tentativi di popolare le isole fallissero.La sostanziale indifendibilità l’insuccesso dell’esperimento di Sisto IV di affidare nel 1477 in enfiteusi a tre nobili napoletani, la persistente diffidenza di chi avrebbe dovuto abitarle, tutto concorreva a scoraggiare l’insediamento sulle isole, sebbene fossero garantiti ampi privilegi a chi vi si fosse recato: piena libertà di movimento e di commercio, esenzione da dazi e gabelle, la scomunica a carico di chi avesse tentato di ostacolarli in qualsiasi modo.L’ultimo gravissimo episodio piratesco si ebbe addirittura nel 1655 quando i turchi, malgrado una guarnigione presente su Ponza, la predarono e fecero saltare la torre che era a guardia del porto e che non fu più ricostruita. Dopo quella data la frequenza e la gravità degli attacchi andò scemando, anche per le isole, con l’inizio di una colonizzazione massiccia e assistita, si fortificarono. Nel 1757 una piccola flotta ponzese, romana, napoletana e maltese distrusse a Palmarola imbarcazioni corsare che vi si erano riparate. E tuttavia va ricordato che ancora nel 1805 si lamentò il rapimento di otto ponzesi a opera di pirati africani: fu l’ultimo episodio di questa brutta epoca. La svolta nella storia delle Isole Pontine avviene con l’infeudamento di Pier Luigi Farnese, capitano generale delle truppe pontificie, a opera del figlio cardinale Alessandro, nipote del papa Paolo III, anch’egli della famiglia Farnese. L’operazione si svolse in questo modo: Paolo III nominò Alessandro titolare dell’abbazia di Santa Maria di Ponza e Alessandro, forte di questo titolo e dei connessi privilegi, concesse al padre come feudo le isole, in cambio di una candela di cera bianca lavorata, da consegnargli annualmente. Questo avveniva nel 1542.La feudalità farnesiana non ottenne granché: furono riesumati i privilegi concessi da Sisto IV e rinnovati col nome di “privilegi farnesiani”. Assicuravano piena e totale immunità agli isolani: essi non potevano “essere ricercati, arrestati o giudicati, ancorché i medesimi rei vi avessero consentito”; e sarebbe stato garantito asilo “per qualunque debitore, malfattore, inquisito, forgiudicato ecc.”. Insomma, davvero una bella extraterritorialità.



Furono i Borboni a promuovere il popolamento delle isole. Ciò si deve al primo dei Borboni di Napoli, Carlo III, la cui storia merita di essere rapidamente ricordata. Si è detto che i feudatari delle isole erano i Farnese, ma il ramo maschile di questa famiglia si estinse senza eredi. Per evitare i rischi di una successione difficile nel ducato di Parma che la famiglia reggeva, le quattro potenze dell’epoca (Francia, Inghilterra, Spagna e Austria) autorizzarono la successione in favore del discendente maschio di Elisabetta Farnese, divenuta moglie di Filippo V re di Spagna. Il discendente maschio era, appunto, Carlo di Borbone, il quale divenne re di Napoli alla morte dell’ultimo Farnese maschio, Antonio, nel 1731 (incidentalmente: Antonio Farnese era cardinale, ma fu autorizzato a sposarsi pur di avere un erede, cosa che non gli riuscì).Carlo iniziò un regno che sarebbe durato a lungo e su due troni: fino al 1759 su quello di Napoli, e di lì in avanti anche su quello di Spagna, più impegnativo, al quale venne chiamato alla morte di Filippo V. Carlo III era persona di grandi capacità organizzative, di larghe vedute amministrative e di spiccato intuito politico.Quando la madre gli cedette, nel 1734, ogni diritto da lei vantato sul territorio italiano, Carlo si occupò subito delle isole, il cui regime giuridico subì una profonda modifica: non più oggetto di diritti feudali, esse divennero patrimonio privato del re di Napoli.Questa condizione sarebbe stata rimossa definitivamente dalla rivoluzione bonapartista, durante il regno di Gioacchino Murat (1808-1815), che rese le isole beni demaniali.Carlo III progettò per le “sue” isole un destino di rinascita, affidandosi a un disegno strategico che puntava sul ripopolamento e sulla colonizzazione, nonché sulla creazione di strutture collettive. Il re cominciò con l’incoraggiare la trasformazione in residenza del pur limitato pendolarismo allora esistente (i pescatori delle coste peninsulari si recavano spesso nelle acque ponzesi e ventotenesi). Inoltre predispose una serie di condizioni di favore “sostanziale” per chi si fosse trasferito: il diritto a un pezzo di terra, a una casa, a sfruttare le risorse locali (bosco, caccia, pesca). Il re munì i coloni del necessario per iniziare la loro opera di stanziamento: arnesi, attrezzi agricoli, animali da allevare, semi per coltivare e, infine, un po’ di denaro e l’esenzione dalle tasse. Ma fu il figlio Ferdinando che completò e realizzò il progetto.Agli insediamenti spontanei si aggiunsero quelli pilotati: intere famiglie vennero convinte a trasferirsi, sicché dal 1734 al 1777 si compì il primo popolamento guidato, rinforzato anche dai nuclei provenienti dalle città disastrate dall’eruzione del Vesuvio nel 1771.Questo spiega perché Ponza e Ventotene abbiano una base culturale, un dialetto, usi che sono sostanzialmente della Campania e un’onomastica che è prevalentemente ischitana, procidana e torrese. I primi arrivati furono soprattutto agricoltori, perché poterono scegliere le terre migliori; i secondi furono soprattutto pescatori. Via via che il ripopolamento procedeva con risultati validi, malgrado la quantità di problemi e di sacrifici che i nuovi arrivati dovettero accollarsi, prendeva anche corpo il disegno urbanistico. L’opera iniziata da Carlo III fu, come si diceva, condotta a perfezionamento dal figlio Ferdinando (IV di Napoli, III di Sicilia, e I delle Due Sicilie), consolidata politicamente e giuridicamente durante la parentesi francese, e definitivamente acquisita dopo la restaurazione borbonica.E’ dal 1857 la spedizione del patriota Carlo Pisacane, che s’impadronisce dell’isola di Ponza prima di sbarcare con poco più di trecento compagni, sulle coste di Sapri, dove la sua avventura avrebbe vissuto un tragico epilogo.Nel 1861 le isole furono annesse al nuovo stato unitario italiano.Il resto è storia recente e contemporanea. La colonizzazione borbonica ebbe inizio con l’invio a Ponza di cittadini d’Ischia, che poi raggiunsero anche Ventotene: Con l’isola degli avi, ponzesi e ventotenesi mantengono legami ancora stretti, legami che si manifestano in tanti modi. I cognomi per esempio: Migliaccio, Tagliamonte, Mazzella, Conte, D’Atri, Coppa, Scotti a Ponza, e Jacono, Langella, Verde, Impagliazzo a Ventotene si ritrovano comunemente anche a Ischia. Nomi geografici ricorrono tra Flegree e Pontine, da “parata” e “chiana” a Giancos, che definisce una località di Ponza, e che sarebbe la fusione con abbreviazione del nome di Giovanni Cossa, castellano d’Ischia, padre dell’antipapa Giovanni XXIII. Legami che, per la verità, hanno origini assai più profonde nel tempo, nella stessa formazione vulcanica, nella stessa e pur diversa formazione geologica, che Alfredo Rittmann ha messo in parallelo; o, per venire a epoche più prossime, nel comune destino di sofferenza per le incursioni dei pirati, Dragut, Khair-ad-Din, nel XVI secolo, in testa; o che affondano nella fede e nella similitudine delle vicende agiografiche (Santa Restituta a Ischia, Santa Candida a Ventotene vennero dal mare, entrambe martiri).Non vuole essere un elenco, questo: ma viene facile avvicinare il modo stesso di “fare comunità” attraverso lo strumento di base, la casa: le volte a lamia, battute coi pentoni, sono state fino a qualche anno fa la casa di ischitani, ponzesi e ventotenesi; la tenuità dei colori, la semplicità elegante delle forme squadrate, sono altri elementi comuni all’edilizia delle isole; persino i comignoli delle vecchie case-grotta, e le stesse case-grotta (che a Ischia si chiamano “case di pietra”), quelle abitazioni che sfruttarono e sfruttano ancora la penetrabilità e la tenuta termica della roccia. Per concludere ricordiamo che gli ischitani furono ottimi pescatori di aragoste, e che i ponzesi hanno legato a lungo a questo stupendo crostaceo la loro stessa immagine, commerciale e gastronomica. Dalle fonti e documenti sulla storia di Ponza la data d’inizio della vera e propria colonizzazione dell’isola è fissata al 1768, quando Ferdinando IV di Borbone, succeduto a Carlo III, costruisce sul progetto “arcipelago Ponziano” una parte consistente di un piano più vasto di recupero sociale ed economico delle zone depresse ed abbandonate del Regno di Napoli, in linea con le analoghe esperienze di dispotismo illuminato degli altri stati europei. Qui interessa soprattutto mettere in luce, dell’intero progetto borbonico, le caratteristiche del piano urbanistico del paese di Ponza e quelli dei nuovi insediamenti come Le Forna. Come sappiamo il progetto di fondazione della nuova colonia fu affidato al Maggiore del Genio Antonio Winspeare, coadiuvato dall’ingegnere Francesco Carpi. Winspeare e Carpi, in realtà, ebbero funzioni ben più importanti di quelle meramente tecniche d’ingegneri militari. Dovevano anche essere agrimensori, occuparsi delle richieste dei sussidi governativi da parte dei coloni, dei danni provocati durante i lavori da cause di forza maggiore come mareggiate o terremoti e così via. Una funzione ambigua, in un rapporto non chiaro e spesso conflittuale con il Governatore Militare e con quello Amministrativo dell’isola. Il 6 gennaio 1771, in una lettera inedita inviata da Winspeare all’Intendente generale dei Reali Allodiali a Napoli, Salvatore Caruso, viene descritta la situazione di Ponza prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione del porto e di edificazione del paese. Da questa lunga relazione emerge la complessità dei problemi che Winspeare dovette affrontare durante il suo ventennale incarico. Il primo punto della lettera riguarda la situazione dei coloni e la suddivisione dei terreni, essenziale per il funzionamento economico della colonia. Per migliorare la situazione, Winspeare propone allora di aumentare la franchigia per i coloni da tre a dieci anni adeguandosi a quanto era già stato fatto in esperimenti paralleli a Sierra Morena e ad Ustica. Un’altra facilitazione richiesta da Winspeare per i coloni ponzesi riguarda il prezzo con cui vennero stimati i terreni prima della suddivisione, prezzo giudicato eccessivo, data la difficoltà di coltivare un territorio come quello di Ponza. La prima tappa della realizzazione del progetto di Winspeare fu la ristrutturazione del vecchio porto. Iniziata nel 1772, la ristrutturazione del nuovo porto progettata da Winspeare “sugli avanzi dell’antico porto greco – fenicio, modellato a ferro di cavallo col dorso risguardante a scirocco”, risulta completata con la costruzione delle lanterne nel 1779.Il vero problema del porto consisteva però non tanto nella parte architettonica quanto in quella strettamente funzionale, della profondità dei fondali necessaria per potervi ospitare imbarcazioni di grandi dimensioni. Il problema del “cavamento del porto” si trascina per una ventina d’anni dall’inizio dei lavori. All’interno del porto, il molo venne utilizzato anche per ospitarvi i magazzini, in linea col criterio di conciliare funzionalità ed estetica alla base degli interventi progettuali del Winspeare. I magazzini sono ricavati sfruttando lo spessore del molo. Il risultato è un edificio sviluppato tutto in lunghezza, la cui superficie è vivacizzata dalla serie ritmica di porte centinate alternate a finestre quadrate ed a basse colonne tronche, tuttora visibili entro nicchie più o meno modificate secondo i casi. Un secondo edificio destinato a magazzini era stato originariamente collocato da Winspeare di sghembo rispetto alla rampa cordonata che sale al paese. Venne invece realizzato sullo stesso asse longitudinale del molo. Si tratta probabilmente dell’attuale Caserma dei Carabinieri: dell’architettura settecentesca è rimasto solo il loggiato ad arconi leggermente ribassati. Nel “piano dimostrativo” compare anche “l’Abitazione del Governatore”, a pianta quadrata, situata nella zona detta “La Caletta”. Oltre al progetto di Winspeare, vi sono due testimonianze di questo edificio perduto. La prima è quella di un anonimo francese che nel 1822 raccoglie in un “tableau topographique et historique” le sue impressioni su Ponza e le isole dell’arcipelago “….La casa del Governatore è all’inizio della lingua di terra….” La seconda è una testimonianza grafica: in un disegno del Mattej dal titolo “dietro alla caletta” è, infatti, possibile identificare nell’imponente costruzione quadrata in primo piano a destra il Palazzo del Governatore. Insieme al Palazzo del Governatore, l’altro importante edificio di destinazione civile del piano urbanistico di Winspeare è il “nuovo casamento, situato nella spiaggia del porto”. Si tratta dell’attuale Palazzo del Comune, effettivamente realizzato nella stessa area stabilita dal progetto. Anche in questo caso viene ripresa l’idea, già adottata per i magazzini sul molo, di una costruzione a sviluppo orizzontale, a due piani, il primo dei quali costituito da un loggiato ad arconi, elemento, come abbiamo visto, già utilizzato nel secondo padiglione di magazzini. Al secondo piano, su un ballatoio dal quale è visibile l’imboccatura del porto, si aprono porte e finestre rettangolari. La tinteggiatura giallo chiaro della facciata era già indicata nel progetto. Nella realizzazione, invece, è stata aggiunta una cornice bianca che sottolinea i profili degli elementi architettonici, esempio, secondo Sacchi e Bresciani, del “gusto coloristico napoletano d’età borbonica”. La torretta dell’orologio, che non compare nel progetto di Winspeare, non è visibile neppure nella documentazione grafica di Mattej né nelle descrizioni delle fonti ottocentesche. Si tratta evidentemente di un’aggiunta posteriore alla seconda metà dell’Ottocento, probabilmente riconducibile a quella necessità di “ritorno all’ordine” dei primi decenni del Novecento, come sembrerebbe confermare la necessità di sottolineare la simmetria dell’edificio, creando un centro – l’orologio – che spezzi la fuga delle arcate in basso. Nel progetto manca invece lo sviluppo longitudinale del “Nuovo Casamento”, lungo tutto l’arco dell’insenatura del porto, così precisamente descritto dal Tricoli: “….Dei casamenti esterni, cioè la Palazzina segue l’incurvatura con due piani a lamie sopra una filza di 40 simmetrici magazzini larghi e lunghi, avendo 120 stanze di fronte accavallate…”. Questo ampio emiciclo ritmato dagli arconi dei quaranta magazzini è tuttora uno degli aspetti più suggestivi e originali del disegno urbanistico di Ponza. Una soluzione scenografica e “moderna”, traduzione mediterranea dell’uso del crescent nell’architettura e urbanistica in Inghilterra nella seconda metà del Settecento. Soluzione che sarà ripresa e sviluppata nell’ideazione del carcere di S. Stefano, dove l’emiciclo diventa il cerchio perfetto del panopticon. E’ perciò molto probabile che anche in questo caso Francesco Carpi abbia completato il progetto iniziale di Winspeare, cominciando a sperimentare a Ponza idee che poi avrebbe messo in pratica a Ventotene durante i lavori dell’ergastolo. Dell’intero complesso detto “la Palazzina” è rimasto abbastanza integro l’aspetto del “nuovo casamento” (l’attuale Palazzo Comunale) già presente nel piano originale di Winspeare mentre la linearità della serie di case a schiera lungo l’emiciclo del porto, ancora ben visibile in un’incisione del Mattej del 1857, è oggi alterata da sopraelevazioni e aggiunte che contrastano con la geometria essenzialmente lineare del progetto settecentesco. “L’Abitazione del Governatore” (distrutta) e il “nuovo casamento” rappresentavano rispettivamente il potere politico amministrativo e quello militare dell’isola, poteri cui era affiancata la collaborazione tecnica e, talvolta, la supervisione del Maggiore del Genio Antonio Winspeare e dell’ingegnere Francesco Carpi. Le carte d’archivio documentano una corrispondenza fittissima fra Napoli e la nuova colonia dalla quale emergono i conflitti e le polemiche continue fra queste tre diverse competenze per conquistare la reale supremazia dell’isola.
Per la nuova Chiesa di Ponza Winspeare adottò lo schema a pianta centrale con copertura a cupola ed annesso convento a pianta longitudinale. Lo schema architettonico della pianta e la facciata, composta da un pronao a quattro colonne chiuse superiormente da un timpano triangolare, costituiscono l’estrema semplificazione formale dell’idea neoclassica del tempio antico. Winspeare adoperò la stessa soluzione sia a Ponza sia a Ventotene, dove lo stesso tipo di facciata venne però adattato per una chiesa a pianta longitudinale. Identico è comunque nei due casi il criterio di base: un uso sapiente degli stilemi neoclassici per dare un’aura colta e aggiornata alle più moderne tendenze della cultura artistica di quegli anni anche alla modesta chiesa parrocchiale di un’isola sperduta e in via di popolamento. Le tinteggiature indicate nelle due piante di Winspeare – giallo paglierino e rosa – sono rimasti per due secoli i colori dominanti degli edifici di Ponza e Ventotene, almeno fino al recente avvento delle vernici al quarzo. L’aspetto originale della chiesa è oggi ricostruibile da un’incisione del Mattej del 1857, nella quale si può notare, sul fianco destro dell’edificio “…una torricella per l’orologio, costrutta di pianta in semplici ma euritmiche proporzioni e severità di forme, ma senza essere priva di gusto, ed anche di bellezza…”.Del campanile con l’orologio oggi non resta nulla, forse, un frammento architettonico accanto alla cupola. Sia il progetto di Winspeare che la veduta di cinquant’anni più tardi del Mattej mettono in luce, inoltre, il ruolo dominante della chiesa nel piano urbanistico di Ponza porto, immediatamente visibile a chi sbarcasse sull’isola, in cima alla rampa d’accesso al paese di fronte alla Palazzina: le due sedi del potere religioso e civile – militare. Una moderna costruzione a tre piani con decorazioni di gusto genericamente “decò” impedisce oggi questa prospettiva diretta sulla “magnifica e rotonda Chiesa Parrocchiale” (Tricoli), alterando completamente l’originale disegno di Winspeare.



Nel 1940 il parroco di Ponza, don Luigi Dies, decise di ampliare la chiesa trasformandone l’originaria pianta centrale in pianta longitudinale. Venne così ridotta la scalinata d’ingresso e chiuso il pronao. Dal libro dello stesso Dies su Ponza e dalle fonti orali sappiamo che nell’impresa venne coinvolto tutto il paese: donne e uomini aiutarono gratis a trasportare da Bagno Vecchio le pietre destinate all’ampliamento, pittori di Ponza e “forestieri” si occuparono della decorazione pittorica delle pareti interne seguendo le precise istruzioni iconografiche del parroco Dies. Oltre alla SS. Trinità sull’altare maggiore e ai santi titolari della chiesa e patroni dell’isola Silverio e Domitilla, vennero raffigurati episodi della storia sacra, santi martiri e pontefici che avessero avuto un particolare collegamento con Ponza. Non solo, vennero anche chieste in prestito alla Soprintendenza di Roma l’Adorazione dei pastori di Antonio Greccolini e la Natività della Vergine di Michelangelo Cerruti, passate dalla distrutta chiesa romana di S. Venanzo alla Galleria Nazionale d’arte antica a Palazzo Barberini e diventate infine un ulteriore abbellimento della rinnovata parrocchia di Ponza. Prima dell’intervento di Dies l’interno della chiesa della SS. Trinità era quasi spoglio a parte la presenza delle statue di S. Silverio e della Vergine, già segnalate dal Tricoli ai lati di una pala dell’altare raffigurante la Trinità (oggi sulla controfacciata).Annesso alla chiesa e costruito negli stessi anni è l’edificio a pianta longitudinale del convento, costituito da un lungo corridoio sul quale si aprono una serie di piccole celle. Vi alloggiarono nei primi vent’anni della fondazioni della colonia i padri Cappuccini. In seguito, visti i continui problemi creati nella nuova colonia dalla litigiosità, prepotenza ed anche licenziosità dei frati, si decise di sostituirli con il clero secolare nel 1793. Prima di lasciare definitivamente l’isola, i Cappuccini vendettero tutti gli utensili dati loro dalla Cassa Allodiale, lasciando ai successori “…solo pochi piatti e una coperta inservibile…”.Nel “Piano dimostrativo” di Winspeare non compare invece, fra le “nuove fabbriche”, l’edificio collocato sul retro della Palazzina, il cui perimetro è però tracciato nella pianta con le indicazioni per la costruzione di un pozzo. Si tratta dell’area dove poi venne realizzato l’ex Bagno Penale, che è attualmente la scuola di Ponza.
Assieme alla Chiesa e alla Palazzina, il terzo luogo importante in una razionale pianificazione della vita della nuova colonia era il cimitero, che venne collocato sul promontorio detto “della Madonna”, separato, a Ponza come a Ventotene, dal centro abitato. All’inizio della fondazione della colonia non venne progettata una costruzione vera e propria per il cimitero, ma si adattò a quell’uso la preesistente cappella della Madonna della Salvazione, “tempietto situato sopra i Bagni di Pilato…”, già ricordato dal Pacichelli nel 1685 e segnalato nelle piante dell’isola come l’unico luogo di culto per i temporanei abitatori di Ponza durante i due secoli del dominio farnesiano. Nel corso dei vent’anni dall’inizio della fondazione della colonia, però, a causa del progressivo popolamento dell’isola, lo spazio destinato al seppellimento dei morti diventò insufficiente. Si era inoltre consolidata una struttura sociale divisa fra autorità militari, religiose e civili da una parte, coloni e forzati inviati come mano d’opera per la costruzione del nuovo paese dall’altra. Questo fatto fece col tempo nascere l’esigenza di sepolture differenziate a seconda dei vari gradi sociali.



In una mappa delle fortificazioni militari di Ponza il fulcro strategico – difensivo dell’isola era necessariamente il porto e l’area circostante. La particolare conformazione collinosa di Ponza, inoltre, consentiva di sfruttare ai fini difensivi le “strutture” messe a disposizione dalla natura. Oltre alla cilindrica “Torre del Giudicato” che difendeva proprio l’imboccatura del porto e che venne rasa al suolo da un’incursione dei turchi nel 1635.
La Torre di Ponza venne fatta costruire su ruderi romani da Alfonso d’Aragona, che fra il 1479 e il 1481, concesse in enfiteusi perpetua le isole ad Alberico Carafa duca di Ariano, ad Antonio Petrucci conte di Policastro e ad Aniello Arcamone conte di Borelli con l’impegno che edificassero a Ponza “….La Torre dominante la baja…”. Alfonso d’Aragona, inoltre, “…fra le moltissime provvidenze ordinò il ristabilimento de Torrieri e Castellani in Ponza, i quali all’ufficio di Guardare la Torre che quivi esisteva a difesa del porto, aggiungessero la facoltà di Governatore dell’isola….”.Nasce così il primo nucleo del futuro centro abitato dell’isola. I documenti successivi confermano, infatti, l’esistenza a Ponza di una Torre quadrata, in cattive condizioni perché spesso si segnala la necessità di restaurarla.Anch’essa fortemente danneggiata dall’incursione turca del 1635, la Torre venne restaurata nel 1770 sotto la direzione del Maggiore D. Benedetto Rezzano. Il restauro della Torre fu quindi il primo atto delle imprese edilizie legate alla fondazione della nuova colonia, precedente l’affidamento della direzione dei lavori ad Antonio Winspeare. La tipologia della Torre di Ponza venne però adoperata da quest’ultimo per la costruzione ex – novo della Torre a Ventotene, anch’essa a pianta quadrata, a due piani anziché a tre.Negli anni Cinquanta l’edificio subì alterazioni all’interno: del primitivo impianto si conservano il basamento in peperino e i riquadri di quattro finestre quadrangolari. Nel nostro secolo fu sede prima del confino fascista, poi di una colonia marina parrocchiale fino all’attuale destinazione alberghiera iniziata contemporaneamente all boom turistico di Ponza negli anni Sessanta. La maggior parte delle costruzioni difensive di Ponza data al periodo dell’occupazione napoleonica in Italia nei primi decenni dell’Ottocento, quando il controllo dell’arcipelago Ponziano diventò un punto strategico – militare di importanza internazionale.La prima di queste fortificazioni fu la cosiddetta “Batteria Leopoldo”, eseguita nel 1808 per ordine del Principe di Canosa. La collocazione della Batteria Leopoldo dietro la Caletta, ad un livello più basso rispetto alla Torre, aveva lo scopo di salvaguardare l’ingresso del porto, riprendendo da una diversa posizione l’antica funzione della demolita Torre del Giudicato. Dal 1860, quando con la caduta del governo borbonico venne tolto da Ponza il presidio di terra, la Batteria Leopoldo rimase disabitata. Sullo scorcio dell’Ottocento l’intera costruzione venne abbattuta per consentire l’ampliamento del cimitero.
Identica funzione aveva il fortino sullo scoglio della Ravia detto il Fortino Bentinck dal nome dell’allora Comandante della spedizione anglo – siciliana, Lord William Bentinck, al quale si deve il progetto e la realizzazione della maggior parte delle fortificazioni di Ponza.Fra le altre fortificazioni predisposte per ordine di lord Bentinck fra il 1808 e il 1813 va segnalato “… un Ospedale – forte con trinceramento a due pezzi di cannoni, tuttavia detto il Campinglese, in eminenza centrale dell’isola…” (Tricoli). La zona ha mantenuto la denominazione, di Campo Inglese nonostante il fortilizio non esista più. Gli unici forti all’interno dell’isola ancora in piedi, anche se in pessimo stato di conservazione, sono Forte Papa e Forte Frontone. Quest’ultimo, sul promontorio accanto alla spiaggia omonima, venne costruito nel 1813, a difesa dell’accesso orientale del porto di Ponza.La più antica delle fortificazioni di Ponza dopo la Torre è però Forte Papa, fatto costruire per volere di Ferdinando IV di Borbone nell’ambito dei lavori per la fondazione della nuova colonia di Torresi a Le Forna nel 1772.L’inaccessibilità del luogo da terra è documentato da un’incisione del Mattej del 1857, mentre l’aspetto odierno del forte denuncia una volta di più lo stato di degrado sia dell’edificio che del passaggio circostante, dove era la miniera di bentonite.La costruzione delle case per i coloni, soprattutto per la zona del porto vicino alla parte “nobile” del paese, non venne lasciata al caso, ma inquadrata all’interno del “ben regolato” piano progettato da Winspeare. Si tratta di una serie di case con funzione puramente abitativa, situate con molta probabilità dove attualmente è la strada della Madonna che sale dal paese al cimitero, entrambi interventi che nella seconda metà dell’Ottocento alterarono l’intero assetto edilizio della zona “dirimpetto alla Torre”.La tipologia delle abitazioni comuni è simile sia a Ponza che a Ventotene: case a schiera con copertura a lamie a pianta quadrata. Elementi tutti importati, assieme all’uso dell’arco e della scala esterna, dalle analoghe forme edilizie dei luoghi di provenienza dei primi coloni ponzesi: Ischia, Procida, Torre del Greco. Sul vano in muratura, un vero e proprio cubo, è impostata la volta che può essere a botte o a specchio, l’incrocio cioè di due mezze botti con la sommità in piano. In alcuni casi l’altezza della volta, all’interno, arriva fino a cinque metri. Per costruire le coperture a lamie venivano usate le centine che, a lavoro finito, venivano rimosse.Questo tipo di abitazione era già un segno di distinzione sociale per quei coloni che avevano potuto restituire alle casse Allodiali il prestito a lungo termine e rateizzabile della “calce e bocche d’opera” per la costruzione della casa. Ai coloni arrivati per ultimi o comunque più poveri non restava invece che “…incavarsi o accomodarsi qualche grotta….”Come ricorda il Tricoli. Ed è questo il secondo tipo di abitazione ponzese: la casa – grotta o “casa – tartufo”, costruita sfruttando la naturale conformazione naturale del terreno.Il problema della riutilizzazione o di scavo ex – novo delle grotte si presentava quasi quotidianamente ai due soprintendenti ai lavori della colonia Winspeare e Carpi. Nel 1790, per esempio, Francesco Carpi nega a Giovanni Russo l’autorizzazione a “…incavarsi una grotta nel proprio territorio…perché l’esempio di tanti altri che si han voluto costruire simili Grotte, le hanno poi dovute abbandonare perché umide e perniciose alla propria salute…”.Le considerazioni del Carpi sull’ambiente malsano delle grotte, un tipo di abitazione ben lontana dai criteri funzionali e razionalisti del progetto urbanistico settecentesco, si trasformano invece nel corso dell’Ottocento in osservazioni curiose sull’aspetto “pittoresco”, “caratteristico”, “grazioso” delle case – tartufo. Dal mondo “illuminato della ragione” nel quale si muovono Winspeare e Carpi, si passa a quello dominato dal sentimento dei viaggiatori dell’Ottocento. Le grotte incavate nella roccia dai “miserabili” esercitano il fascino indiscutibile del “colore locale”, diventano il simbolo di un contatto fra uomo e natura sulla via del dissolversi. Da diverse testimonianze vediamo come la maggior parte delle case – grotta fosse concentrata alle Forna, il secondo polo della colonizzazione borbonica. Nel 1772, infatti, vi si stabilirono i coloni venuti da Torre del Greco dando inizio così alla cosiddetta “colonia dei Torresi”. Le Forna non nasce però come un paese costruito secondo un preciso piano urbanistico, ma piuttosto come un insediamento rurale “di spontanea e libera formazione”. L’unico intervento edilizio pubblico, assieme a Forte Papa, fu la costruzione nel 1781 della chiesa parrocchiale, definita nei documenti settecenteschi “cappella rurale”, dedicata alla Madonna Assunta. La facciata della chiesa riprende la tipologia di quella di S. Candida a Ventotene mentre le decorazioni a stucco con motivi di putti e ghirlande sopra le finestre è un’aggiunta più tarda, databile fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del nostro secolo. Nel 1846, venne costruita la cappella laterale col titolo di S. Filomena. La diversa formazione dei due centri di Ponza, il paese sul porto e Le Forna, è rimasta una dicotomia costante nella storia dell’isola. La rivalità fra una zona più sviluppata e “antica” e una più povera e “moderna” è viva ancora oggi perfino nel ricordo dei ponzesi emigrati in America. La sensazione che i coloni delle Forna si sentissero trascurati dal governo centrale appare chiarissima nei documenti sui primi anni di vita della colonia.I cubi delle abitazioni comuni con la leggera curvatura delle lamie e la decorazione discreta delle modanature lisce che riquadrano facciate e finestre caratterizzano soprattutto i centri abitati. Ne troviamo perciò in tutti i “paesi” dell’isola, da Ponza porto a S. Maria fino alla Piana d’Incenso, oggetti ormai rari in un paesaggio urbano fortemente modificato da nuove costruzioni e rifacimenti senza regola di strutture preesistenti. L’architettura spontanea invece è fin dall’inizio legata al lavoro della terra. Perciò, oltre che alle Forna, nata appunto come insediamento rurale, la ritroviamo sparsa per tutta la campagna ponzese dagli Scotti di sopra, lungo il sentiero che sale al monte La Guardia, al Fieno, ai Conti, al Frontone. Inserti architettonici sempre più rari, le case – grotta sono spesso nascoste rispetto ai percorsi abituali dei turisti sull’isola. Un esempio di conservazione “naturale” è la grotta di Giustino al Fieno, rimasta quasi identica all’immagine fissata in un disegno del Mattej di più di un secolo fa.Quali sono le caratteristiche dell’architettura spontanea ponzese? Il criterio – guida è, ovviamente, la funzionalità. Si trattava, infatti, di abitazioni stabili e non stagionali come le grotte di Palmarola. Il Fasolo distingue fra un tipo di casa – grotta interamente scavata nella roccia ed un tipo di casa mista, dove alle stanze interrate viene aggiunta una camera esterna spesso utilizzata come camera da letto, a pianta quadrata e con volta a padiglione secondo la classica tipologia mediterranea. Gli altri vani (cucinino, tinello, a volte camera da letto) vengono scavati nel banco di tufo disposti non in profondità, ma orizzontalmente. Il fronte della casa – grotta, generalmente orientato a valle, viene chiuso da una muratura di tufo sulla quale si aprono porte e finestre. Lo spessore del tufo serve da tetto. Viene così risolto uno dei problemi vitali degli isolani, l’approvvigionamento idrico. Il Fasolo fa notare, infatti, come nella volta delle case – grotta l’andamento irregolare e apparentemente casuale della superficie abbia la precisa funzione di fornire ” una superficie di continuo regolare deflusso delle acque…tale da convogliare gradualmente l’acqua piovana verso il bocchettone inferiore”.E’ un’architettura ricca di elementi minori, “…scalinate, forni, lavatoi, cisterne, ed ogni altra comodità necessaria…” che ne costituiscono anche l’unico motivo decorativo, abbellito dall’imbiancatura a calce, dalla varietà delle forme, dallo spessore e rugosità della materia di costruzione. I veri protagonisti dell’architettura spontanea ponzese sono però i comignoli. Mentre comune a tutti è la pianta a parallelepipedo terminante a piramide, forma che secondo il Fasolo aveva sempre la funzione di favorire la raccolta idrica, per ciascuna delle case – grotta la canna fumaria assume una fisionomia individuale, riconoscibile come il volto di una persona.Sempre il Fasolo azzarda l’ipotesi di un’analogia strutturale fra le case – grotta di Ponza e le cuevas dei gitani in Andalusia, a Guadix, sulle pendici della Sierra Nevada. Caratteristiche comuni dell’architettura spontanea dei due luoghi sarebbe l’uso di due ambienti scavati nella roccia, l’ambientazione panoramica, la disposizione dei vani frontale e non in profondità, il gusto del dettaglio architettonico e, infine, la tinteggiatura ad intonaco bianco. E’ un accostamento senza dubbio affascinante, ma da prendere con cautela. Affinità morfologiche di questo tipo sono, infatti, spesso legate ad una generale similitudine di clima e di funzione, ma nessi più precisi diventano pericolosi quando sono difficilmente dimostrabili.Le tipologie dell’architettura spontanea hanno una continuità nel tempo che va al di là delle convenzionali periodizzazioni fissate nella storia dell’architettura delle capitali. L’isola è già di per sé un luogo “tagliato fuori” e, all’interno della nostra isola, le case – grotta rappresentano a loro volta una “periferia” rispetto al “centro” del paese sul porto. E’ in queste zone “eccentriche” che la storia, anche degli stili, ha dei ritmi più lenti, che certe forme architettoniche vengono ripetute sempre uguali seguendo una tradizione artigianale ormai consolidata. Si spiega così come una delle soluzioni adottate nelle coperture di alcune delle case ponzesi – i rialzi perimetrali con funzione di convogliamento delle acque che danno alla copertura una caratteristica sagoma “a cappello di carabiniere” – venga riadoperata con pochissime variazioni in epoche diverse. Passiamo così alle forme stondate, probabilmente più antiche, della piccola cappella sulla punta estrema dell’isola a Piana d’Incenso o di quella, ormai perduta, sulla piazza detta della “Punta Bianca” giù al porto (oggi piazza Gaetano Vitiello), nota da un disegno del Mattej, a quelle più stilizzate delle varie edicole religiose disseminate un po’ dovunque nell’isola.L’esempio più importante di questa continuità delle tipologie fissate dall’architettura spontanea è la chiesetta della Civita, fatta costruire dal parroco Luigi Dies nel secondo dopoguerra lungo la strada che porta al Faro della Guardia a ricordo del tradizionale pellegrinaggio delle donne ponzesi il 21 luglio al Santuario della Civita vicino ad Itri. Culto, assieme a quello di S. Silverio, fra i più radicati nella religiosità dei ponzesi sia sull’isola sia nelle “Little Ponza” di New York.



Gioacchino Murat fece incamerare dal Demonio del Regno i beni privati del Re Ferdinando, onde i coloni ricevevano periodicamente dal Re casa eterra, strumenti di lavoro e da pesca, sementi annue ed esenzione dalle tasse dello Stato. I ponzesi offrivano al Re benefattore la sola quietanza o decima dei loro prodotti, di cui matà era trasmesso al Ministro della Real Casa e l’altra ridonata ai coloni, sotto forme diverse d’assistenza e di previdenza sociale. Queste benemerenze la Storia no dovrebbe misconoscerle col dimenticarle! I nostri traizionali “Doni di Maritaggio” alle giovanette povere, che distribuivano in occasione della festa patronale di San Silverio, ebbero origine e ispirazione in quei Maritaggi annui, che il Re offriva, in occasione del Giovedì Santo. Col trattato di Vienna, Ferdinando tornò al suo trono di Napoli e lasciò incamerati nel demanio i suoi beni familiari delle Isole pontine, però con espressa clausola che i pubblici edifici servissero sempre agli scopi specifici, per cui erano stati costruiti. Ciò valse per tutti gli edifici pubblici di Ponza, ma non valse per la casa canonica o antico Palazzo del Cenobio, che, solo sei anni or sono (1950) fu data al parroco, previo contratto di locazione per un triennio. E qui ricorda la spedizione di Carlo Pisacane per liberare i detenuti dall’ Isola di Ponza e effuare, iniziando prorio da Ponza, quel movimento rivoluzionario che, nelle speranze di quei patrioti doveva portare l’Italia alla sua unificazione. La “Spigolatrice di Sapri”del Mercantini rievoca l’episodio e il suo epilogo cruento. Con l’unificazione d’ Italia, insieme ai tantui vantaggi la clonia di Ponza avvertì il supremo svantaggio per la sua vita patriarcale cessata; perchè quella languì dapprima e poi si spense nelle ingrate provvidenze di vita penale e … poi … confinaria che riportò, d’un salto Ponza ai tempi del feroce Tiberio!!!



Alle ore 17 del 27 giugno 1857 un piccolo vapore attracca nel porto di Ponza. Si chiama “Cagliari”, ne scendono pochi uomini guidati da un giovane. Un po’ la sorpresa, un po’ la determinazione dell’assalto, gli invasori hanno rapidamente ragione della piccola guarnigione locale. Si fanno consegnare le chiavi delle prigioni, dove si trovano i coatti, delinquenti comuni o sognatori irredentisti dell’unità d’Italia, e li liberano. Li invitano a seguirli in nome della patria che sognano. Il manipolo cattura le armi della guarnigione, poi, con 323 prigionieri liberati, risale sul “Cagliari”, diretto verso la Calabria, per suscitare la rivolta antiborbonica. Ma mentre la nave inizia il suo viaggio verso sud, dal porto, col favore della notte, si stacca un gozzo con otto rematori, che punta su Gaeta. La guarnigione borbonica viene informata dell’accaduto poche ore dopo. Da quel momento si mette in moto il meccanismo che avrebbe portato Carlo Pisacane a morire con pochi altri, dei non molti che lo avevano seguito, sulle coste di Sapri, dove si concluse tragicamente l’ultima avventura romantica prima dell’unità d’Italia. Ecco come l’episodio di Carlo Pisacane e dei suoi uomini di Ponza viene raccontato da un cronista contemporaneo, un testimone diretto, il ponzese Giuseppe Tricoli, nella sua ‘ monografia per le isole del Gruppo Ponziano’ : ” il partito benanche liberale italico ideò un movimento nel reame napoletano, ed a riuscirvi sopra il vapore di Sardegna il Cagliari furono imbarcati 18 casse di armi come mercanzie e 25 emigrati corsi, romagnuoli, coi regnicoli D. Carlo Pesacano capo, D. Giovanni Nicotera, e D. Giovanni Falcone, quali sottocapi, ed invece di far rotta di spedizione per Tunisi, approdavasi in Ponza il dì 27 giugno 1857, verso le cinque pomeridiane, prestando danni alla macchina. Vi accorreva il capitano del porto D. Montano Magliozzi, il pilota pratico, e l’ufficiale di piazza, che furono osteggiati (presi in ostaggio), la deputazione sanitaria era divertita (fuorviata), mentre due lance inosservate per la esterna scogliera, sbarcavano 18 dei cennati individui armati di due botti (fucili a due colpi), con giubba e berretta rossa, immettendosi nel vicolo la Caletta, preceduti dallo stendardo ancor rosso, gridando viva l’Italia e la repubblica tirando fucilate.” Attoniti i custodenti e gli abitanti nel vedere quei furibondi impadronirsi della scorridoja (barca) di marina, scambiarsi i colpi con taluni soldati, uccidendo il tenente di servizio, ed occupata parimenti la gran guardia, la batteria-molo, e il palazzo del comando, ove si erano riuniti gli ufficiali, e segnata la resa tutti furono prigionieri sul Vapore. Ecco in breve i terrori della rivoluzione scoppiarono, armandosi da circa due mila dei servi di pena fra ex militi, rilegati, e presidiarii colle armi ricavate dalla truppa, e disbarcate dal legno in due botti, tromboni, pistole e stili. Fattasi imponente la massa rabbrividivano i naturali (gli abitanti) perché tutto cedeva, aperto il bagno (penale), e le altre prigioni della relegazione, e circondariali, un torrente di forsennati coi gridi sediziosi girava per lo abitato e pei casali, crescendo in audacia ed in eccessi, allorché il fuoco consumava le officine della comandazia, del giudicato, del municipio e de posti degli urbani, di polizia e di gendarmeria: indi col proclamare la repubblica quei ribaldi sbrigliati, mettevano a sacco l’intera isola, non esclusi i commestibili e gli arnesi ancorché infimi; mentre essi festeggiavano all’imbrunire della sera bensì con la obbligata illuminazione, e banda musicale, aumentavansi le angosce de’ sbalorditi ponzesi rannicchiati per le remote caverne coi funzionari, ed eternavansi i momenti del lottare benanche fra i disagi, ed il certo sterminio, dopo tanto bisbigliare e ladrocinare, senza speranza di soccorso o freno a quella deplorabile scena. Verso la mezzanotte salpava intanto al tiro di cannone il piroscafo con ancora 323 di essi servi di pena de’ più audaci, dirigendosi a Sapri presso le coste di Salerno”.



Nella prima metà dell’Ottocento l’aspetto di Ponza non subisce molte trasformazioni rispetto al modello fissato dal progetto urbanistico settecentesco. Le uniche consistenti novità dei primi decenni del secolo riguardano, come abbiamo visto, il rafforzamento difensivo dell’isola. L’immagine che ce ne tramandano le due principali fonti ottocentesche, Tricoli e Mattej, mantiene ancora la fisionomia del paese voluta da Winspeare e Carpi. Troviamo, infatti, spesso nelle precise descrizioni dei due eruditi – a distanza di quasi un secolo dalla fondazione della nuova colonia – i termini di un “nuovo paese” o di “recente costruzione”. Le vedute del porto o delle Forna disegnate dal Mattej nel 1847 si possono a buon diritto considerare l’unico reportage sull’aspetto di Ponza nei suoi primi decenni di vita.
E’ nella seconda metà del secolo che, a varie riprese, vengono tentate le prime radicali modificazioni dell’originaria struttura urbanistica del paese. Con un atto del 31 ottobre 1857, infatti, Ferdinando II di Borbone approva una serie di opere pubbliche a Ponza. In quegli anni era governatore politico dell’isola il Commendatore Gaetano D’Ambrosio, l’ultimo amministratore locale legato all’ancien regime prima dell’Unità d’Italia. I numerosi interventi previsti dal decreto governativo erano soprattutto dettati dall’incremento della popolazione sull’isola e dalla conseguente necessità di ampliarne e rimodernarne l’assetto urbanistico anche sulla base della crescente differenziazione sociale degli abitanti, fra i quali si era ormai formata una classe dirigente locale più agiata con esigenze ben diverse da quelle dei primi coloni sbarcati sull’isola nel 1768.
Il primo punto del programma governativo riguardava la costruzione di edifici di rappresentanza (palazzo municipale), di destinazione religiosa (una nuova chiesa parrocchiale e una cappella rurale a S. Maria), di utilità pubblica (il carcere e due nuovi cimiteri sia a Ponza che alle Forna).
Il secondo punto del progetto prevedeva la ristrutturazione della rete viaria del paese e il riammodernamento dell’area portuale. Questo ambizioso piano venne realizzato solo in parte e per lavori di piccola entità. Le uniche opere effettivamente costruite furono la strada “…detta della Madonna in lunghezza di più di mezzo miglio, tracciata spaziosa, e buon tratto…incassata di molto nell’erta collina per addolcirne il pendio, decorandola di laterali edifizi…” (Tricoli) e la cosiddetta strada Circea.Quest’ultima, realizzata sempre durante la gestione D’Ambrosio, “…mette capo in Santamaria per palmi 3866…come dai Fenici incavata comoda fra le viscere di tre montagne…era ignorata come interrata da una quindicina di secoli. Ora se ne attuava il disterro…impiegandovi al quotidiano lavoro non meno di 400 donzelle ed altrettanti garzoncelli…” (Tricoli). La strada è la stessa che oggi passa sotto i tre tunnel dalla spiaggia di S. Antonio per Giancos fino a S. Maria e il metodo di coinvolgimento collettivo utilizzato dal D’Ambrosio per far eseguire il disterro venne riutilizzato, come abbiamo visto, negli anni Quaranta dal parroco Dies per l’ampliamento della chiesa della SS. Trinità. Non venne invece eseguito il proseguimento della banchina del porto da Punta Bianca a Santa Maria né nessuna delle costruzioni pubbliche. Venne realizzato solo il nuovo cimitero di Ponza sulla collina della Madonna ma molto più tardi, sullo scadere del secolo.Spesso le costruzioni iniziali vennero interrotte senza essere mai condotte a termine. Il Tricoli, ad esempio, cita la chiesa di S. Giuseppe a S. Maria, per la quale nell’atto governativo del 1857, veniva approvata la prosecuzione dei lavori iniziati nel 1828.Venne invece effettivamente costruita solo nel 1895 grazie “all’elemosina degli Arcivescovi di Gaeta, del parroco e del popolo di Ponza e dei Forestieri” come ricorda la lapide dedicatoria. Un altro episodio simile è quello della chiesa di S. Antonio, la cui costruzione, iniziata nel 1858 di fronte al mare e a fianco della strada che va a Chiaia di Luna, venne interrotta due anni dopo. Per quarant’anni restarono in piedi i muri perimetrali fino a quando non venne comprata da un privato ed adattata ad abitazione ed a deposito di attrezzi navali.Oltre al ripristino dell’uso del telegrafo sulla cima del monte La Guardia (l’edificio oggi è completamente diroccato), con decreto del 24 marzo 1859 venne anche abolito l’impiego della lanterna sul promontorio della Madonna e ne venne costruita un’altra a spese della Finanza. E’ il Faro della Guardia, un edificio rettangolare a due piani, che Sacchi e Bresciani rilevano come un “raro esempio di attrezzatura costiera del secolo scorso”, uno dei più bei luoghi dell’isola.La maggior parte degli interventi architettonici ottocenteschi non riguardano tanto l’edilizia pubblica quanto quella privata. Già nel 1857 il Mattej notava il convivere a Ponza “del promiscuo antico e nuovo paese”, che corrispondeva alla “duplice classificazione del ceto dei paesani il più agiato cioè e il più volgare..”. Questa duplice classificazione si precisa col sorgere dei primi palazzi fatti costruire da quelle famiglie ponzesi che volevano sottolineare la loro raggiunta agiatezza. Il Tricoli cita, distinte dal “resto dell’abitato…fra le case notabili il Palazzo Tagliamonte, e l’elegante casina del Commendatore d’Ambrosio…Il Palazzo-pinto, Irollo, Jacono, Cimino e dei Germani D. Antonio e di Gennaro Vitiello”. La lista degli edifici corrisponde all’elenco dei cittadini “notabili” del paese, discendenti dalle prime famiglie venute ad abitare l’isola. Sono tipici palazzotti di rappresentanza, a due o tre piani, con la facciata spesso decorata a stucco o dipinta a motivi vegetali o zoomorfi o con testine di putto. Tradizione fondata, raccontano le fonti orali, dalla presenza di artigiani napoletani o addirittura pugliesi sull’isola. Queste decorazioni “ricche”, della facciata, spesso disposte a fregio tutto intorno all’edificio, sono una costante per tutto l’Ottocento fino agli anni Venti – Trenta del nostro secolo. Il modello architettonico del “palazzo” rappresentava la “casa ideale” che tutti gli emigrati ponzesi nei primi decenni del Novecento speravano di potersi costruire al ritorno sull’isola. I ponzesi le chiamavano, infatti “case americane” e si distinguono subito nel tessuto urbano di Ponza: il loro aspetto imponente contrasta, infatti, con le case bianche con il tetto a lamie incastrate attorno ai vicoli stretti, alle scale improvvise, alle discese e salite imprevedibili.
Non mancano, accanto a questa nascente architettura residenziale, gli edifici “curiosi”, in linea con la cultura artistica del Romanticismo. Un esempio è il Belvedere esagonale del Commendatore D’Ambrosio, chiamato dal Tricoli “l’esagono del commendatore”. Vi si arriva chiedendo il permesso di entrare nei giardini di una casa privata lungo la strada della Madonna.Per tutto l’Ottocento abbiamo soprattutto interventi isolati sia nell’edilizia pubblica che in quella privata. Manca, insomma, una regolare pianificazione urbanistica dell’isola. E’ difficile perciò cogliere nell’immagine ottocentesca di Ponza una caratteristica dominante, un criterio – guida, così evidente, invece, nel “ben regolato” piano progettato da Winspeare alla fine del Settecento. L’unica eccezione è la costruzione del nuovo cimitero sul promontorio della Madonna nell’ultimo decennio del secolo, quando era sindaco Vincenzo De Luca. Il progetto per un nuovo cimitero era già stato deciso nel 1857, disposto in uno degli ultimi atti amministrativi del governo borbonico. La sua realizzazione molti anni più tardi, dopo l’Unità d’Italia ed in seguito al difficile inserimento di Ponza nella vita politica ed economica del nuovo Stato, è uno dei sintomi del relativo miglioramento della situazione dell’isola.Il nuovo cimitero diventa perciò il luogo in cui la Ponza post – unitaria vuole rappresentare il conquistato inserimento nella vita del paese, adeguandosi alle novità della cultura architettonica italiana della seconda metà dell’Ottocento. Nel clima di “risanamento” e “rappresentatività” che stava coinvolgendo in misura maggiore o minore tutte le città italiane dopo l’Unità, la “città dei morti” diventò uno dei luoghi deputati della “rappresentatività”. Da servizio di utilità pubblica, separato dall’abitato per motivi di igiene come imponeva un decreto napoleonico fin dal 1804, il cimitero si trasforma nella seconda metà dell’Ottocento in un ritratto enfatizzato della “città dei vivi”, dove l’accento è posto sulla monumentalità ottenuta attraverso il compromesso degli stili architettonici.Anche a Ponza il processo di trasformazione dal vecchio al nuovo cimitero assume caratteristiche simili a quelle delle altre città italiane: è in sostanza il passaggio dalla funzionalità e razionalità che aveva il camposanto nel piano urbanistico settecentesco all’esigenza di aulicità del paese “moderno”.Nella riorganizzazione del cimitero venne mantenuta la primitiva collocazione sulla collina della Madonna, luogo ideale perché, per la sua conformazione geografica, era naturalmente separato dal paese, “un’isola nell’isola”. Bisognò poi abbattere la Batteria Leopoldo e trasformare le grotte, già dormitori delle truppe, in cappelle sepolcreti, recintando il tutto con mura che sottolineassero la divisione fra “città dei vivi” e “città dei morti”.L’ingresso del cimitero di Ponza è semplicissimo, a differenza delle magniloquente entrate dei grandi cimiteri delle capitali a Roma, a Genova, a Milano. Nel recinto delle mura una porta si apre di fronte alla cappella settecentesca progettata da Winspeare, elemento di congiunzione fra il vecchio e il nuovo cimitero. Di lì scendono verso il mare le “strade” della “città dei morti”. Si intersecano ad angolo retto, una rete ordinata e perfetta di ascisse e ordinate che sembra voler contraddire la disposizione spontanea e disordinata dei vicoli del paese giù al porto, alle Forna, dovunque sull’isola. Il cimitero a Ponza, più ancora che il riflesso della “città dei vivi”, sembra quasi il disegno utopistico di una “città ideale”, una città che nella realtà non era stato possibile concretizzare.Ai lati delle “strade” le cappelle sepolcrali delle famiglie notabili si alternano alle semplici file di lapidi sovrapposte. Lo stile dominante è il neo – gotico. Assieme al convenzionale repertorio di archi acuti, bifore, colonne tortili, guglie indicati dagli architetti di fine secolo come il vocabolario di base per il “nuovo” stile, non mancano, nel cimitero di Ponza echi neo – rinascimentali nelle paraste scanalate, nei capitelli corinzi, negli archi a tutto sesto.L’adeguamento allo stile delle capitali convive però, a Ponza, con un linguaggio decisamente locale. In questa chiave si può leggere, infatti, la riutilizzazione come tombe delle grotte che già esistevano prima dei lavori per il nuovo cimitero: recupero volto a sottolineare l’importanza della grotta come struttura abitativa a Ponza da prima ancora della colonizzazione romana fino a quella borbonica.Nella decorazione delle cappelle, infine, troviamo un ricco repertorio di motivi desunti dal romantico e dal gotico e riproposti in una versione isolana del “Liberty”: angeli con le mani giunte in preghiera entro mandorle ogivali, archetti che si intersecano come nel Duomo di Caserta Vecchia, palmette. Da questo repertorio attingeranno almeno fino agli anni Venti e Trenta del Novecento i maestri locali per le decorazioni in stucco delle facciate, per le balconate in ferro battuto.Nella memoria dei ponzesi è ancora viva l’eco di questa tradizione artigianale che ha lasciato una gran varietà di testimonianze in tutta l’isola. La decorazione è anzi forse il filo conduttore che ci permette di ricomporre l’immagine ottocentesca del paese di Ponza. E’ un’immagine frammentaria che può comparire sopra una porta a S. Antonio o sotto il tetto di una casa salendo a Monte Guardia o su un tabernacolo a Le Forna. Un’immagine che solo nel cimitero acquista la concretezza e l’omogeneità di un progetto che abbraccia insieme urbanistica, architettura e decorazione.L’aspetto più attraente dell’isola erano però, anche nell’Ottocento, più le sue bellezze naturali che l’intervento dell’uomo. Ed è proprio quest’immagine che oggi rischiamo di perdere e che le fonti ottocentesche ci tramandano ancora intatta nella sua ricchezza e varietà.Le sagome così simili di Ponza e Palmarola, la loro reciproca vicinanza geografica sono, infatti, tuttora considerate una delle particolari attrattive del luogo. In entrambi, infatti, è possibile in ogni momento riconoscere, come riflessa in uno specchio, la forma dell’isola “sorella”. Si ricrea così costantemente quello stato psicologico che spinge verso l’isola come luogo di evasione, di avventura, di ricerca dentro e fuori di sé senza allo stesso tempo mai dimenticare di essere già su un’isola, su una porzione di terra, cioè, separata dalla terraferma da un braccio di mare. I ponzesi sentono tutti fortemente il richiamo della propria “insularità” rispecchiato nella sagoma amica di Palmarola, l’isola dove si va a caccia, a pesca, in viaggio di nozze dove “…c’erano l’ontano il pioppo e il cipresso odoroso…e avevano i loro nidi uccelli dalle lunghe ali…che amano vivere lungo le rive del mare…e…si stendeva vigorosa con i suoi tralci….la vite domestica….”. Anche per Palmarola, come per l’isola di Calipso, si può, infatti, tuttora affermare “era uno spettacolo che anche un immortale, a giungere qui, avrebbe guardato con meraviglia e viva gioia..” (Omero, Odissea).



Chi visse su queste isole i tremendi avvenimenti della seconda guerra mondiale, certamente non potrà dimenticare gli episodi drammatici dell’inverno 1944. Anche a Ponza come in altre località italiane si morì di fame nelle giornate tra il 26 febbraio e il 5 marzo 1944.
Il fronte si era arrestato al Garigliano sin dalla fine di ottobre. Sulla costa vicina i Tedeschi ad Ischia e in Campania gli alleati Anglo Franco Americani. Il traffico si svolgeva con i motovelieri ponzesi tra Napoli, Ischia, Ventotene e Ponza. La nostra isola, come molti sanno, può soddisfare il fabbisogno della popolazione solo con la produzione del pesce; per il resto importa tutto dal continente. L’approvvigionamento, che era stato già molto precario nel periodo bellico precedente l’otto settembre ’43, divenne caotico in quell’inverno a causa dell’occupazione. Tutte le zone occupate furono suddivise in governatorati affidati a corpi di polizia per lo più inglesi, che, svolgevano la funzione di governo con lo spirito di chi, trovandosi spaesato in terra straniera, si preoccupa soprattutto della propria salute. A Ponza avevamo il Commissario “ex” prefettizio, il quale dopo l’occupazione reggeva le sorti del paese solo in virtù di un successivo atto di riconoscimento da parte del governatore delle isole Pontine e Partenopee. Non sempre si trovava nei magazzini di Napoli la partita di viveri pronta, quando le scorte si andavano già esaurendo nell’isola. In quell’inverno il maltempo aggravò la situazione. Verso la metà di febbraio, una serie di tempeste a catena tenne Ponza isolata dal resto del mondo per quasi venti giorni. Logicamente mancò anche il pesce a causa della forzata inattività dei pescatori. Dopo una settimana d’isolamento le persone più deboli iniziarono ad accusare la fame. Qualche vecchio ammalato morì. Magri spettri umani s’aggiravano per la campagna, in cerca delle erbe, anche le più inimmaginabili (corse voce che alcuni avevano mangiato anche i nopali di fico d’India). Ai primi di marzo, quando la tempesta non accennava a diminuire, si videro sfilare una decina di cortei funebri. Ora morivano anche i bambini. I familiari dei morti non piangevano: erano muti, storditi e comunicavano a tutti uno squallido senso di vuoto, d’incolore e di atonico, lo spettro vivente della fame che ti ammazza senza farti male. Da Ponza partì un telegramma a firma di Don Salvatore Vitiello e del Comandante del Porto Cap. Di Cecca così concepito: “POPOLO PONZA MUORE FAME”. La gente si affollò in chiesa ad implorare. Il tre marzo cominciò un triduo di preghiere a S. Silverio. “Al termine – scrive Don Luigi Dies, allora parroco – era domenica, avvertii che l’indomani avremmo celebrato la messa di ringraziamento conclusiva del triduo” e prosegue “….aggiunsi: del resto il proverbio dice: in un’ora Dio lavora”. E il miracolo avvenne. Verso le sei e mezza di quella stessa sera, il suono festoso delle campane trasmise a tutti un senso di gioia. Tutti intuirono che era arrivato il mezzo con i viveri. I fatti erano andati così: il governatore, appena ricevuto il telegramma diede ordine di trasbordare su una grossa nave inglese i viveri che si trovavano da più di una settimana su due piccoli motovelieri ponzesi. Appena al primo accenno di miglioramento il capitano inglese Simpson doveva salpare dal porto d’Ischia per Ponza. Ma il tempo peggiorò. Si trovava ad Ischia l’armatore ponzese Antonio Feola, detto Totonno Primo. Grazie alla sua diplomazia con il governatore, Ponza era riuscita a strappare grandi vantaggi, ed ora quest’ultima disposizione era frutto dei suoi buoni uffici. Animato da gran coraggio e dall’intima gioia che provava nel fare il bene dell’isola, Antonio Feola salì sull’unità inglese che aveva completato il carico e disse al capitano di salpare. Il valente cap. Simpson lo guardò con il sorriso del vero inglese che osserva un pazzo, e per accontentarlo in parte volle fare la mossa di salpare sicuro di rientrare in porto ai primi convincenti colpi di mare. Una popolazione moriva di fame, un altro giorno sarebbe costato la fine di una cinquantina di vite; bisognava osare. Appena fuori del porto d’Ischia, Antonio Feola, spalleggiato da altri ponzesi, quasi con atto di amichevole violenza assunse la guida del timone, affidando al timido capitano una bottiglia di whisky come per sollevarlo. Come fecero ad arrivare nel porto di Ponza fu un miracolo vero e proprio. A seguito di ciò il 5 marzo divenne una solennità civica dell’isola e ogni anno fu celebrata la messa solenne di ringraziamento.



Era il mattino del 24 luglio 1943, attraccato al molo di Ponza vi era il S. Lucia, un traghetto di 450 tonnellate appartenente alla società Partenopea Anonima di Navigazione. Era in procinto di partire. I passeggeri, disseminati tra il comando del porto e la scaletta d’imbarco, attendevano notizie rassicuranti. Si temeva il ripetersi del passaggio aereo che il giorno prima aveva sorpreso la piccola nave mentre era impegnata in operazioni di sbarco presso l’isola di S. Stefano. L’azione causò solo del panico a bordo. Ora il comandante aspettava che Gaeta comunicasse la presenza o meno in zona di aerei inglesi. Intanto fra la gente si faceva largo la convinzione che quella del giorno prima fosse stata solo una ricognizione. Sicuramente gli inglesi, adesso sapevano che quella minuscola nave era innocua. Intanto si faceva tardi, il comando di Gaeta taceva, nonostante le ripetute richieste, occorreva partire. Tutti s’affrettavano all’imbarco, molti uomini, una coppia di sposi, donne, neonati, alcuni militari di leva. Si partiva per acquistare provviste, per motivi di salute, per sfuggire al previsto isolamento, per andare in viaggio di nozze, per necessità. Su quei volti imbruniti e sereni non si percepiva alcuna preoccupazione, anzi molti si sentivano sicuri perché il comandante della nave era “uno buono”. Il Santa Lucia lasciò il porto di Ponza quando il sole estivo già cominciava a diffondere la sua calura su un mare incredibilmente calmo. Fece rotta su Ventotene, da dove, dopo una breve sosta sarebbe ripartito per Gaeta. Le due ore di navigazione che dividevano le due isole pontine trascorsero tranquillamente, ormai tutti avevano avvistato punta Eolo e le sagome nere degli scogli “Scuncigli”. A Ventotene si avvertiva l’arrivo del vaporetto disatteso da tempo a causa del forte ritardo. Molti si affrettarono al molo. Improvvisamente si avvertì un rombo in sintonia, erano aerei. Ognuno cercava di scorgerli, la popolazione uscì per le strade, qualcuno intuendo il ripetersi dell’azione del giorno precedente corse preoccupato verso il promontorio di Punta Eolo. Intanto il Santa Lucia aveva messo le macchine avanti a tutta, il pennacchio di fumo era densissimo, la scia si allungava. Dopo un ampio giro, uno dei tre aerei si staccava dal gruppo e si portava in quota di attacco, ed apriva il fuoco. In breve le vetrate di dritta andarono in frantumi, a bordo si contavano i primi feriti, il panico dilagava, il crepitio delle mitraglie fu avvertito da Ventotene, la gente inorridita scappava dappertutto. L’aereo non aveva finito, si rimetteva in quota e riapriva il fuoco sull’inerme vaporetto, nello stesso tempo sganciava un siluro. Il comandante con un’abilissima manovra lo schivava e puntava deciso sulla vicina spiaggia di Parata Grande. Da terra una piccola folla seguiva col fiato sospeso l’impari lotta, sperando che riuscisse la manovra di arenare la nave. Un secondo aereo si staccava dalla pattuglia e sganciava vicinissimo un altro siluro. La nave, sotto la guida esperta del comandante Simeone, sussultò poi sbandò, e schivò anche questo secondo micidiale ordigno. Anche la pattuglia dovette intuire l’intento del comandante Simeone di incagliare la nave per salvare i passeggeri, ma ormai era diventata una questione di puntiglio. La terza volta furono in tre gli aerei che si avventarono sulla piccola nave. La cabina di comando esplose sotto il tiro incrociato, il comandante ferito gravemente perdeva il controllo, le fiamme avvolsero le cabine, era la fine. La nave senza guida continuava la sua corsa, accennando un’accostata a dritta. Ormai era un bersaglio facile, un terzo siluro fu sganciato senza pietà. L’esplosione fu violentissima, i rottami volarono in tutte le direzioni mentre il traghetto spezzato in due affondava rapidamente. Da Ventotene partirono immediatamente i soccorsi. Si scorgevano una miriade di soggetti galleggianti, si sentivano grida, ma non ci si poté avvicinare, anzi bisognava rientrare precipitosamente in porto, gli aerei ancora in zona, effettuavano continue tornate mitragliando fra i rottami, sui superstiti, sui soccorsi. L’azione criminale non era ancora finita. Solo quando non si sentì più il rombo dei motori le barche dei soccorsi ripresero il largo nella speranza di trovare qualche sopravvissuto. Fu recuperato il comandante, ormai in fin di vita. Un carabiniere ustionato, due marinai e un passeggero che si erano previdentemente gettati in mare già dal primo attacco. Risultarono disperse 105 persone. La notizia arrivò a Ponza alla velocità della luce, le famiglie accorsero trepidanti al porto, la stazione semaforica di monte Guardia contattava, intanto Ventotene. Si riceveva un messaggio: “Piroscafo S. Lucia est stato affondato da aerei inglesi presso Ventotene recuperate cinque persone”. Ponza era nel dolore, decine e decine di famiglie piangevano i loro cari, per molti iniziava un lungo periodo di stenti. La gente attonita ancora oggi, non crede a quanto accaduto e si chiede il perché di tanta crudeltà, il perché di tanto accanimento su quell’inerme piroscafo di linea.
La mattina del 23 febbraio 1944 la nave americana da guerra LST 349, della classe Liberty, lasciò la banchina del porto di Anzio. Lo sbarco degli alleati era già avvenuto e le truppe d’assalto stavano preparando l’attacco decisivo per sfondare le linee tedesche e raggiungere Roma.La Liberty carica di attrezzature militari, di feriti e prigionieri, era diretta a Napoli. La navigazione sarebbe durata circa 24 ore. I militari nel loro gergo chiamavano questo viaggio il “giro del latte”. Quasi subito dopo l’inizio della navigazione, però, la nave subì un’avaria ai motori e fu costretta a procedere lentissima. La notte la sorprese così, discostandosi notevolmente dalla tabella di marcia, al largo di Palmarola. Il comandante decise perciò di ancorarsi e aspettare l’alba. Ma un’improvvisa tempesta, con fortissime raffiche di vento da maestrale, dopo aver disancorato la nave la sospinse, con onde sempre più alte, verso Ponza. Dopo alcune ore la nave, ormai ingovernabile, andò a schiantarsi rovinosamente tra gli scogli antistanti la Punta del Papa.I prigionieri chiusi nelle loro celle, furono svegliati dai passi allarmati dei marinai in coperta e dal rumore di ferraglia che la nave produceva contro le rocce. Cominciarono a gridare atterriti e qualcuno si ricordò di loro. Furono fatti salire in coperta. Improvvisa, un’esplosione squarciò l’aria e fu il panico. La nave si divise in due tronconi. Alcuni per sfuggire ad una morte certa si tuffarono in mare, cercando a largo un’impossibile salvezza. Furono travolti dalle onde e risucchiati dai vortici. Gli inglesi che presidiavano l’isola, con l’aiuto della gente del luogo, calarono delle lunghe corde dall’alto del promontorio del Papa, alle quali si aggrapparono, come unica via di salvezza, feriti, marinai, prigionieri. Non mancarono atti di eroismo. Un pilota della RAF, di nome Gottard, pur riuscendosi a mettere in salvo, non esitò a rituffarsi per dare aiuto ad un prigioniero tedesco. Ma inesorabilmente, fu ingoiato dalle onde. Al culmine della tragedia si udì, secco, uno sparo provenire dalla cabina della plancia. Il comandante della nave non aveva voluto sopravvivere alla fine della sua nave! I naufraghi furono accolti sull’isola ed aiutati dagli abitanti. Per giorni, passata la tempesta, si raccolsero lungo le coste dell’isola, oggetti di ogni genere. Intorno al 1955 fu recuperato dalla Marina Militare tutto quanto era ancora utilizzabile del carico: armi, munizioni, jeeps. Alcune di queste ultime, poi, a ben dieci anni dal naufragio, erano ancora perfettamente funzionanti. Va ricordato che le LST dell’U.S. Navy (la sigla deriva da Landing Ship Tank) furono progettate per l’assalto anfibio ed utilizzate durante la seconda guerra mondiale. Avevano un gran portellone a prua per permettere lo sbarco di un ingente numero di automezzi minori, come camions, cingolati, semoventi. Il relitto di Ponza si trova oggi adagiato su di un fondo sabbioso, diviso in due tronconi, fuori il promontorio di Punta Papa, nella frazione di Le Forna. La parte prodiera, ad una profondità di circa 20 metri, si presenta distesa sul fondo, nella stessa posizione di navigazione. Parte dell’armamento contraereo è ancora visibile. Vi sono, sempre sulla prua, una mitragliatrice da 40 mm e due da 20 mm. Per la continua presenza sul relitto di numerosi subacquei, una mitragliatrice è tuttora brandeggiabile come se fosse curata dall’addetto alle manutenzioni. Scendere in immersione sul relitto, provvisti di bombole, costituisce una piacevole esperienza e tecnicamente e fisicamente non molto impegnativa. Si è ancora nella curva di sicurezza e ci si potrà attardare ed eseguire foto subacquee o riprese cinematografiche, vivendo l’emozione piena di questo relitto sommerso dell’ultima guerra mondiale.



Mutò il color ottimo di questa perla preziosa, incastonata nel cobalto del nostro mare, allorchè, durante il regime fascista, le isole pontine vennero destinate nuovamente a luogo di confino politico. Il confino è una lunga storia che si snoda dall’antica Roma al fascismo, comune alle due isole maggiori dell’arcipelago, che ha loro tolto a lungo la gioia, alterandone i colori e stravolgendole da luoghi sereni in scogli di durezza, conflitto tra libertà della natura e la costrizione della condizione umana violentata dalla politica. I romani, unendo all’asprezza delle leggi l’irrinunciabile amore per la godibilità della vita, fecero delle isole un esilio dorato, attenuando la solitudine dei giorni d’inverno con la ricchezza degli ambienti, la rinuncia ai riti sociali con l’abbondanza dei servitori. Villa Giulia a Ventotene e la villa sulla collina della Madonna a Ponza furono i segni opulenti e tristi, fastosi e aridi di una libertà sottratta. Poi vennero i martiri del cristianesimo che riempirono le cronache di tre secoli e alimentarono a volte la trasformazione della storia in leggenda. Dopo una parentesi durata circa 13 secoli, Ponza e Ventotene conobbero di nuovo la “punizione” voluta dalla politica. I Borboni, difatti, nel 1820 fecero di Ponza “luogo di rilegazione”, e, cinque anni dopo, Ventotene, oltre che ospitare condannati ebbe anche il “privilegio” di accogliere gente ivi inviata “per misura governativa”. Doveva passare circa un altro secolo, prima che il fascismo trasformasse di nuovo le isole in luogo dell’emarginazione fisica del dissenso politico, con l’istituzione del confino di polizia, nel 1928. Ponza fu la prima sede e ospitò Giorgio Amendola, Lelio Basso, Pietro Nenni, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Umberto Terracini, e tanti altri, insieme ad africani. Il Bagno nuovo , l’edificio oggi sede delle scuole elementari e medie, alle spalle del municipio, e molte case private, accolsero gli esiliati. Era loro consentito muoversi in uno spazio ristretto, tra il tunnel di Sant’ Antonio, i Guarini e la Dragonara. Ponza ebbe allora un certo movimento commerciale, un’infausta nomea di terra di sospiri e un concreto musicale militare, che, nei giorni di festa, tentava di allietare gli animi. I confinati furono numerosi: diverse migliaia, in più d’un decennio, molti dei quali erano senatori, deputati ed ex ministri dell’ ultima Italia. Erano moralmente angariati dalla tromba dell’ appello, che suonava due volte al giorno e alla quale dovevano rispondere; ma fisicamente rispettati, perchè a principio potevano vivere in case private e condursi anche la famiglia; avevano una propria biblioteca, uno spaccio di cmmestibili, le mense gestite da loro rappresentanti di fiducia e mentre un operaio lavorava in miniera per 7 lire al giorno il governo tirannico ssegnava al confinato la diaria di lire 10 senza obblighi di lavoro e lasciando all’iniziativa privata di ciascuno le attività artistiche o artigiane che avessero voluto esercitare. La storia non teme di dire tutta la verità: i veri costretti, i veri confinati, perchè il più delle volte angariati da chi credeva d’essere sempre qualcosa di grande in un mondo così piccolo, era la popolazione civile di Ponza. Stabilite e vigilate le vie così dette di confino con diuturna sentinella, i relegati non potevano oltrepassare i limiti, pena il carcere; e molte volte, specie di nottetempo, agl’isolani, che per loro ragioni circolavano o venivano agli approdi del centro, veniva chiesta loro la tessera di riconoscimento. Questo fatto, non in sè, ma nel modo, come speso si attuava, provocò gravi e incresciosi incidenti e determinò, con altri fattori, qauell’esodo in massa delle famiglie da Ponza a New York, che hanno reso la colonia ponzese di quella metropoli più numerosa della Madre Patria. Little Ponza oggi conta più di 30000 abitanti.